Leggo, e riporto testualmente “Molte aziende statunitensi sono infatti alla ricerca dello chief happiness officer (cho), ovvero del dirigente addetto della felicità dei dipendenti. Il loro obiettivo? Semplice: portare gioia e soddisfazione tra i lavoratori.”
Bene, questo articolo ha ottenuto già un primo risultato: mi sono fatta una bella risata.
Perché, tanto per cambiare, la notizia riporta solo la superficie, e mi vedo già una serie di manager aziendali che ne traggono idee di gestione …
A monte della notizia c’è una grande evoluzione culturale, che arriva proprio da quell’America dove impera il liberismo più sfrenato e dove, come raccontava un’amica approdata parecchi anni fa negli Stati Uniti seguendo il padre che aveva avuto un’importante promozione, la prima cosa che chiedevano i nuovi compagni di scuola era “quanto guadagna tuo padre?”
Gli USA, paradiso dell’immigrato con tanta voglia di crescita, valutava l’individuo in termini di successo e di guadagno: tutti potevano raggiungerlo. Era il grande sogno, tipico dei Paesi giovani. Non era certo così nella vecchia Europa. Ma sono passati decenni, e negli USA ci si è accorti che la vita non è solo lavoro denaro successo. C’è molto di più.
Così, poco a poco, è arrivato il cambiamento culturale e un nuovo approccio alla ricerca della felicità: Will Smith docet. Sono cambiati i valori: meno successo e più famiglia, meno denaro e più saggezza.
Il cambiamento è profondo: basta leggere o frequentare corsi o siti di Peter Senge, Otto Scharmer, guru americani di management che da anni abbinano lo sviluppo creativo del business alla crescita della persona.
Noi, in Italia, siamo diversi. Non tutti, ma molti sì. Basta poco per notarlo.
Ed ecco allora che mi immagino un amministratore delegato che apostrofa i suoi dirigenti: dovete essere felici. Ogni giorno dovete ridere, ridere, manifestare la vostra felicità. Insomma, dovremo essere felici per obbligo.
Niente di nuovo sotto il sole, almeno da noi. Gli psicologi infantili sono pieni di piccoli pazienti condizionati da mamme che li vogliono vedere sempre e solo felici. Qualche anno di coercizione alla felicità e si è pronti per lo psichiatra, o per diventare serial killer.
Per la prima volta mi trovo a valutare la cultura americana come nettamente superiore alla nostra. Infatti, a fianco del direttore della felicità, esce un film come Inside out che dimostra la validità della tristezza, l’importanza del dolore da superare per crescere.
Sono fermamente convinta che il benessere interiore renda più produttivi, più creativi, più efficaci e più efficienti. Non ne ho il minimo dubbio. Sono fermamente convinta che l’azienda possa e debba far molto anche per la felicità dei dipendenti, ad esempio perseguendo valori come l’etica, o il rispetto, soprattutto delle posizioni più umili, o coltivando la meritocrazia, quella vera.
Ma sono anche, purtroppo, quasi certa che questa sarà l’ennesima scusa per allontanare i dipendenti antipatici, quelli che non seguono l’onda. E spero solo di non trovare, un giorno o l’altro, un titolo di giornale che annuncia che qualcuno è stato licenziato perché non era abbastanza felice e intristiva i colleghi.