Più o meno è cominciato così il percorso di coaching.
Lucia (ovviamente non è questo il suo nome) è una persona molto competente, molto stimata.
Quando sa di sapere è anche decisa, volitiva, e non si lascia mettere i piedi in testa, ma sa anche essere modesta, disponibile.
Giovane, matura per la sua età, può essere considerata un’impiegata modello o, come si dice oggi, uno young talent. Mi arriva al coaching per sviluppare maggiormente le sue capacità, peraltro ampiamente riconosciute dai suoi capi e dai suoi colleghi.
Ed esordisce proponendomi l’obiettivo di trovare un metodo di lavoro.
Da quel poco che la conoscevo, e da quello che mi avevano detto di lei in azienda, mi sembrava un obiettivo assolutamente pleonastico: se lei doveva trovare un metodo di lavoro che dire allora di tanti altri?
Però come obiettivo ha senso, bastava formularlo in maniera adeguata. E poi un coach entra in merito al metodo, al processo, ma non può dire che rifiuta un obiettivo sensato perché sembra pleonastico.
Così già alla seconda sessione di coaching l’obiettivo era stato ben formulato, e Lucia aveva proposto una strategia razionale.
Le ho quindi dato come compito di perseguire l’obiettivo usando la sua strategia e chiedendole di portarne avanti, in parallelo, una alternativa.
Lucia proponeva di fare, come primo passo, un’accurata indagine di tutto ciò che non funzionava nel suo metodo di lavoro. Io l’ho obbligata a cercare con altrettanto accanimento tutto ciò che funziona.
Il risultato?
Al terzo incontro Lucia era pienamente consapevole di avere metodi di lavoro efficaci, passibili di ottimizzazione, ma funzionanti. Ed aveva anche capito di avere la rara dote di essere flessibile nei suoi comportamenti, sapendo scegliere il metodo di lavoro in funzione delle situazioni.
E così abbiamo cominciato a lavorare su obiettivi ben diversi.
In questo caso la scelta di assecondare un obiettivo che in realtà era già stato raggiunto è stata efficace per superare un problema di autostima.