Sono lontani i tempi in cui che aveva i soldi (e la nobiltà) considerava degradante dedicarsi al commercio, e come attività lavorative erano accettate, sostanzialmente, darsi alla chiesa o all’esercito. E per le donne, l’alternativa alla chiesa era il matrimonio. La rivoluzione industriale ha cambiato tutto questo. Piano piano il lavoro e lo studio sono diventati strumenti per migliorare la propria vita.
Ovvio che lavorare voleva dire guadagnare, ma anche avere aspirazioni. Provate a parlare, se riuscite a fare un salto temporale, con un qualunque lavoratore dell’800 di aspirazioni professionali, di trovare un lavoro che sia consono con le proprie attitudini.
Abbiamo avuto una bella parabola ascendente, seppur con qualche errore. Il lavoro è diventato un percorso si auto-realizzazione, si è riempito di dignità e sogni, i genitori aspiravano a portare i figli alla laurea che loro non avevano potuto raggiungere, studiare era un privilegio e una sicurezza: chi aveva studiato raggiungeva condizioni, economiche e di soddisfazione personale, migliori rispetto a chi non studiava. Ben pochi si ribellavano davanti all’opportunità di studiare: poterlo fare era un grande vantaggio.
Abbiamo ottenuto il diritto allo studio, al lavoro, al voto per le donne. E poi i diritti dei lavoratori: malattia e ferie pagate, il minimo salariale, i contratti collettivi.
Qualcosa si è inceppato, e non ce ne siamo neanche accorti. La parabola è diventata discendente, con la complicità di tutti, e ce ne rendiamo conto solo ora che scende in picchiata.
Non mi è stato facile scegliere una facoltà che amavo, trovare un lavoro che mi piacesse, cambiarlo quando sono cambiata io, seguire aspirazioni e sogni. Certo che non è stato facile, ma è stato possibile.
Ora invece abbiamo la sharing economy, la gig economy, e tutta una serie di lavoretti. Il bel libro, abbastanza recente, Lavoretti. Così la «sharing economy» ci rende tutti più poveri di Riccardo Staglianò (editore Einaudi) spiega bene la situazione, e le conseguenze.
La terminologia è nuova: tutta da imparare. La realtà che viviamo, invece, era già stata descritta nel libro La fine del lavoro di Rifkin: prima edizione italiana nel 1995. Avevo letto il libro, più di 20 anni fa, ed ero rimasta impressionata perché vedevo, in azienda, le prime avvisaglie di ciò che descriveva Rifkin: i sintomi c’erano tutti. Ora ci avviciniamo sempre più alle conseguenze.
Penso che la cosa più grave, in assoluto, non sia tornare a condizioni di lavoro pre rivoluzione industriale. È terribile, angosciante, profondamente ingiusto, ma non è il peggio.
La cosa peggiore è, secondo me, aver totalmente castrato il valoro dello studio e della cultura. E non perché la cultura elevi o renda superiori, ma perché arricchisce dentro, serve per ottenere esseri umani.
La mia bisnonna, contadina benestante della Romagna di fine ‘800, era una lettrice accanita. Appena ha potuto ha fatto laureare l’ultimo figlio e poi convinto i nipoti a studiare. Sono cresciuta con questi racconti e questi valori. Ho conosciuto magnifiche persone che non avevano potuto studiare e trascorrevano il tempo libero leggendo o cercando modalità per apprendere. Abdicare, come società, a tutto questo mi fa male.