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L'I Ching per il manager

Parole, parole, parole

Parole, parole, parole - Ching & Coaching

La mia generazione ricorda sicuramente una canzone con questo titolo, ma le parole hanno un’anima.

Fiumi di inchiostro, metaforico, sono stati spesi, recentemente, sul termine petaloso, inventato da un bambino, accettato dall’Accademia della Crusca, garantito da sponsor importanti. Ma non dimentichiamo, mai, che petaloso segue la scia del biscotto inzupposo di Banderas che oggi è sì appesantito (per forza: con tutti i biscotti, brioche e panini che ingoia!) e decisamente invecchiato, ma considerando che nemmeno io sono di primo pelo, e lo ricordo ben più giovane e affascinante, quell’inzupposo fa inevitabilmente sogghignare, o sognare, dipende.

Passando ad argomenti più seri, ma sempre legati alle parole, vorrei citare il recente dossier Neuroscienze de Il corriere della sera: La lingua che parliamo influenza la personalità e modella il cervello, in cui si racconta come la lingua madre condizioni molti aspetti della nostra personalità e come la conoscenza di più lingue, meglio se sotto forma di biliguismo, allarghi la visione del mondo e ritardi l’invecchiamento. Vi rimando all’articolo, e consiglio di leggerlo: è interessante.

Interessante, ma non stravolgente, almeno per chi, come me, si interessa da anni alle parole. Modificare il proprio linguaggio modifica il pensiero e, in definitiva, la vita. Non è una novità. Fellini affermò: Un linguaggio diverso è una diversa visione della vita, e da questa frase io stessa ho tratto il titolo di un articolo su questo stesso sito Un linguaggio diverso è una diversa visione della vita. Sei d’accordo?

Le mie riflessioni di oggi sono però da ricondursi ad altro, sempre nell’ambito del linguaggio. Ho appena terminato di leggere un possibile contratto di collaborazione, che dovrei firmare. L’ho letto cinque volte. Ancora sono incerta su alcune clausole. Potete sicuramente pensare che il mio QI non sia adeguato, o che la chemioterapia mi abbia danneggiato i neuroni, e potete anche alzare le spalle dicendo che si sa, il linguaggio legale è sempre complesso. Ma io devo apporre una firma, vincolante.

Ho tentato di seguire, nelle scorse settimane, le sottigliezze per comprendere le diatribe della legge Cirinnà e andare al di là della mia semplice, semplicistica e banale opinione: sono favorevole alle adozioni, alla stepchild adoption, non capisco perché le unioni civili debbano riguardare solo i gay, mentre gli eterosessuali si devono per forza sposare per acquisire alcuni diritti elementari. Sono anche contraria all’utero in affitto (i bambini non sono merce da vendere e acquistare), e non riesco assolutamente a capire cosa c’entra la stepchild adoption con l’utero in affitto. Ma, al di là delle opinioni personali, ho fatto davvero fatica a capire cosa diceva la legge. Lo so, siamo ancora in ballo con il linguaggio legale.

Cambio argomento, quasi. Da tempo i miei nipoti ridono poiché rifiuto, nei messaggi telefonici, di scrivere anke, o di usare sigle strampalate. Sono stata punita: il destino, crudele, mi obbliga a districarmi con abbreviazioni che ricevo da una delle mie più care amiche: lei parla molte lingue, ma non l’italiano e, tanto per banalizzare, How r u? è evidentemente ciò che mi merito.

Siamo pieni … anzi: zuppi di neologismi, discorsi infarciti di termini stranieri, molti dei quali ripetuti malamente … Come dimenticare il fine tubing pronunciato, anni fa, da un capo area in sostituzione del fine tuning strausato dal direttore vendite?

Per molti il “parlare difficile” o usare termini tecnici è la modalità più frequente con cui ci si sente colti, saputi, superiori.

Negli anni ’60 illustri scrittori e registi hanno fatto dell’incomunicabilità il loro strumento di successo. Oggi non è più argomento per libri o film: è un dato di fatto e, per molti, evidente motivo di orgoglio.

Eppure se il linguaggio che usiamo modella il cervello siamo inesorabilmente avviati verso la solitudine del neurone, l’unico che riuscirà a sopravvivere alla nostra pochezza linguistica.

Mi consola, e molto, il bel libro A scuola di futuro, di Daniel Goleman e Peter Senge, pubblicato recentemente in italiano. Due “grandi”, due persone famose, importanti, hanno scritto a quattro mani un libro sull’educazione, argomento complesso e controverso. Eppure ho letto, e capito, quasi metà del libro leggendolo nella sala d’attesa del mio medico di base. Perché è scritto meravigliosamente. Perché, parafrasando una famosa frase di Einstein, se hai veramente capito qualcosa, sei in grado di spiegarlo anche alla nonna.