Qualche giorno di tensione, un po’ di stanchezza, un bisticcio per motivi banali… ed ecco una pugnalata, una frase davvero crudele, di quelle che si ricordano a distanza di anni. Fa male, fa un male cane. (povero cane: che c’entra, poi!)
Per qualche secondo rimaniamo ibernati, come se avessimo subito un abbassamento di temperatura a settanta gradi sotto zero.
Bisognerebbe sapere il vero perché di quelle parole, e capire se c’è una qualche modalità per reagire, rispondere, al di là della reazione istintiva personale.
Azzardo qualche ipotesi.
Perché quelle parole davvero crudeli?
Escluderei la pura cattiveria, la totale crudeltà: spesso sono persone che amiamo, abbiamo sposato, o siamo amici profondamente da anni o ancora sono i nostri genitori, figli, fratelli… E allora perché?
Certo, quella frase è stata detta con il desiderio di ferire. Ma perché?
Premetto che ogni persona e ogni situazione è diversa, forse bisognerebbe sentire uno psicologo, ma, nella mia esperienza, ci sono alcune emozioni quasi sempre presenti. Ansia, frustrazione, insoddisfazione e senso di inadeguatezza si mischiano in proporzioni variabili, ma ci sono. C’è dolore anche in chi fa male, spesso dolore che non si vuole riconoscere, e paura, tanta. E poi c’è rabbia, ed è la rabbia che parla. Rabbia perché l’altra, la persona che subisce, sembra superiore, più calma, forse più saggia, sembra che soffra meno, sembra che possa vedere tutta l’inadeguatezza che si vuole tenere nascosta. Attaccano per paura di poter essere a loro volta attaccati perché pensano di meritare un attacco e non si sentono in grado di sopportarlo.
E allora che fare?
La mia prima reazione istintiva è la fuga: detesto litigare e non tollero le cattiverie.
Non solo non serve, ma potrebbe peggiorare la situazione, spesso perché chi mi ha attaccato legge la mia fuga come una sua vittoria, e quindi userà lo stesso sistema in futuro.
Se non posso fuggire, mi trasformo in una statua (di sale). Immobile, per resistere alla tempesta e aspettare che passi, sperando che lo strato di roccia che mi costruisco a protezione apparente non lasci passare il sangue che scorre dalle ferite.
Non serve. L’altra persona legge in questo comportamento una forma di superiorità: io sono qui che urlo, frustrata, terrorizzata, inadeguata e rabbiosa, e tu sei lì, calma, superiore. Chi urla rabbiosamente non riuscirà mai, in realtà, a percepire il dolore dell’altro, la rabbia uccide l’empatia e talvolta chi ha urlato non sa neanche cosa ha detto.
Piango anche, ma non serve nemmeno quello.
E allora che fare?
Credo ci siano due reazioni utili, ammesso che si riescano ad avere.
Una è il ricalco e guida. Qualche strillo, senza cattiveria, qualche rimostranza ben costruita, senza rabbia, comunica che siamo pari, io non sono migliore di te (vedi, urlo anch’io) per poi guidare verso il dialogo.
L’alternativa credo che sia l’irruzione improvvisa per superare le barriere di rabbia e frustrazione dell’urlante. Un abbraccio, forse, parole di amore, far comprendere che la percepita inadeguatezza e inferiorità non c’è.
Rimarrà, poi, da curarsi le ferite per quella frase, ferite che spesso durano anni.
Avete altre soluzioni? Se sì, grazie per raccontarle.