Secondo il dizionario di italiano il termine globalizzazione è sinonimo di integrazione e di espansione, eppure se ci guardiamo attorno diventa abbastanza palese che nella globalizzazione economica in atto non è minimamente compresa l’accezione di “integrazione”.
In Italia, da molti anni, è stato applicato un sistema di sviluppo copiato pari pari da altri Paesi, senza tener in alcun conto le nostre peculiarità.
Personalmente ho molte perplessità sul sistema di valutazione della ricchezza di un Paese, il famigerato PIL, che è determinante per la nostra stabilità, la nostra libertà di spesa, le tasse da pagare, …
Ora una delle novità più recenti è stata quella di integrare nel PIL il reddito legato alla prostituzione visto che in altri Paesi europei questa è perfettamente legale, produce reddito e tasse. Il fatto non mi entusiasma, ma mi adeguo.
Però ritengo che, a maggior ragione, il PIL dovrebbe includere il valore dei beni artistici di ogni Paese. L’arte è la vera eredità positiva che ogni generazione lascia a quelle successive: su questo concordo perfettamente con il film Monuments Men. È nostro preciso dovere conservare l’arte per le generazioni successive ed è assurdo, e sbagliato, pensare che il patrimonio artistico non sia ricchezza. Se lo includiamo nel prodotto interno lordo, con la precisa clausola che il suo degrado implica una perdita di valore, forniamo una decisiva spinta alla conservazione dei siti archeologici.
Ma non è solo questo che mi frulla, oggi, per la testa.
I nostri Appennini sono bellissimi, e quasi totalmente abbandonati. Peccato che a ciò corrisponda anche il degrado di boschi e fiumi e buona parte del dissesto idrogeologico. Sarebbe invece possibile coltivarli, tenere piccoli allevamenti di bestiame libero, come avviene in Francia o in Olanda. Bisognerebbe incentivare chi decide di rimanere o di trasferirsi in questi luoghi fantastici invece che cementificare ulteriormente (e spesso inutilmente) la pianura padana.
Incapaci di pensare seriamente al futuro, di vedere la ricchezza delle differenze, delle particolarità, di ragionare sulle conseguenze a lungo termine, negli ultimi trent’anni abbiamo applicato il principio della globalizzazione come standardizzazione, uguale per tutto e per tutti, come un tempo si applicava la moda: vestiti tutti uguali e, se quel modello non andava bene per la propria figura, si preferiva essere brutti, goffi e infelici anziché trasgredire.
Chi ha avuto il coraggio, perché di vero coraggio si tratta, di identificare sistemi di sviluppo ad hoc per un Paese o una società ha pienamente dimostrato che è un percorso di successo. Applicando il microcredito, o recuperando tecniche di coltivazione antichi come il terrazzamento, si è riusciti a creare sviluppo e benessere in alcune delle zone più povere del mondo. Ma noi, arroganti ricchi occidentali, vogliamo sentirci uguali evitando però, accuratamente, di perseguire il diventare pari.
Vorrei che un sistema integrato sostituisse la banalità della globalizzazione, un sistema dove ognuno dà il meglio con le proprie differenze, perché ogni situazione richiede una specifica strategia per ottenere il massimo. Utopia?