Tranquilli, non sto facendo riferimento a questioni sociali, sociologiche, politiche o razziali, ma ad una modalità di verbalizzazione che personalmente identifico come ghettizzazione. È una modalità che riscontro sempre più frequentemente e che mi ha fatto molto riflettere, al punto di voler condividere le mie elucubrazioni.
Si comincia in tenera età, spesso da parte di genitori o insegnanti.
- Sei davvero bravo a leggere e scrivere, eppure la matematica non è proprio la tua materia.
- Ha preso tante caratteristiche dalla famiglia di mamma, peccato che in quella famiglia abbiano tutti delle brutte gambe.
- Mi piace molto come disegni, però lascia stare lo sport.
Si continua da grandi, e accantoniamo l’età dell’adolescenza in cui eravamo tutti ipersensibili.
- Come medico sei davvero eccezionale: dedicati a quello.
- Quando si tratta di fare la grafica di una presentazione sei imbattibile. Ora lascia che ti aiuti per i contenuti.
- Dammi qualche consiglio di cucina: tu cucini splendidamente. In cambio ti posso aiutare e mettere in ordine l’armadio.
Avete capito il meccanismo?
Si comincia facendo un apparente complimento, che magari è anche, ameno in parte, un sincero riconoscimento, e si continua evidenziando limiti, difetti e carenze.
Ho sentito, e subito, talmente tante volte frasi di questo tipo da essere allenata ad identificarle. Lo step successivo è stato, quando ero coinvolta per motivi professionali o chiamata a fare da arbitro in discussioni familiari, chiedere a chi riceveva questo tipo di considerazione come si sentiva.
La risposta è stata univoca: penso che voglia farmi un complimento, e non capisco perché, invece, mi dà fastidio, mi intristisce, mi irrita.
Ecco: io capisco perché.
La realtà è quell’apparente complimento specifica che sei bravo in qualche piccola cosa, ma decisamente incapace in altre. Il riconoscere l’abilità diventa una sostanziale ghettizzazione e sottintende, più o meno velatamente, limiti invalicabili.
Certo, tutti sappiamo che ci sono cose in cui siamo più abili, ma a nessuno piace sentirsi dire che ci sono cose che non sappiamo proprio fare e che non possiamo nemmeno imparare.
Personalmente ho imparato, avendo avuto a mia disposizione non pochi anni di esperienza, che ci sono cose che so fare, sempre con spazio di miglioramento, cose che non so fare e non mi interessa apprendere. Tutto il resto, ed è la maggioranza delle cose, appartiene alla categoria del non so fare e posso imparare.
Da un punto di vista educativo (genitori, insegnanti o capi verso i dipendenti) la ghettizzazione è devastante: demotiva e toglie spazio e potenziale di miglioramento.
La forma peggiore, secondo me, è quella del “fai pure questo, visto che sei bravo, ma chiedi a me per tutto il resto” (sottinteso: in tante altre cose io sono meglio).
Purtroppo è la forma più usata, anche tra amici o colleghi.
La definisco la modalità peggiore perché oltre a far danno a chi la subisce evidenzia una sottile forma di sadismo che dimostra un’insicurezza da parte di chi la usa.
Sottintende infatti che i meriti siano riconosciuti malvolentieri e che ogni riconoscimento di un punto di forza necessiti una compensazione semplicemente perché la persona che parla è terrorizzata da una possibile inferiorità. Ma se i rapporti umani vengono basati su una scala di superiore / inferiore, la vita diventa una crudele lotta per la supremazia.
Un merito, una capacità superiore alla nostra, va riconosciuto, magari si può tentare di copiare o chiedere di insegnare, non compensato da un demerito o appiattito vantando una capacità superiore in un altro campo.
Ed è anche inutile, da un punto di vista educativo, offrire un aiuto vantando un proprio merito. Solo gli aiuti richiesti sono davvero utili.
Quindi … attenti al ghetto! E, qualunque sia il ghetto, abbattiamolo!