Empatia significa mettersi nei panni dell’altro, sentire quello che sente l’altro, provare le stesse emozioni e sentimenti. Una definizione che, secondo me, è più poetica ci arriva dagli indiani d’America: fare un pezzo di cammino indossando i mocassini dell’altro.
Questa estrema cura dell’altro ha fatto sì che per alcuni l’empatia sia diventata una manifestazione di buonismo. Niente è più lontano dalla realtà.
Bene: cominciamo da qui.
Una persona empatica è pienamente consapevole dei sentimenti e delle emozioni altrui. Se vuole, può consolare, incoraggiare, trovare le parole più adeguate per far sentire l’altro pienamente supportato. Se vuole.
Perché anche una persona empatica può essere offesa, arrabbiata, o provare un forte desiderio di colpire qualcuno. Sono empatica, non una santa.
Le parole diventano dunque un’arma potente, che colpisce e ferisce nel profondo. L’empatico lo sa, sente il dolore di chi è ferito e, se l’ha fatto consapevolmente, se ha voluto ferire, prova anche una certa soddisfazione.
Talvolta sento anche qualcuno affermare: quando voglio, sono molto empatica.
Perdonate. Ci credo poco.
Una frase del genere presuppone che l’empatia sia una specie di interruttore che si può spegnere o accendere a piacimento e, di solito, se si approfondisce la faccenda si scopre che la persona si sente empatica verso le persone a cui vuole bene, quelle a cui presta attenzione.
Magari fosse così semplice!
Invece chi è empatico lo è sempre. Talvolta capita di percepire l’antipatia che qualcuno prova per noi empatici, il disprezzo, il fatto che qualcuno ci detesta. E l’empatia fa sì che lo sentiamo così profondamente da provare fastidio per noi stessi, finendo per mettere fortemente in dubbio il nostro modo di essere. Tutt’altro che piacevole!
E poi l’empatia può fare danni, avere effetti collaterali anche gravi.
Immagina di ascoltare qualcuno raccontarti i suoi problemi. Sei empatico, senti e vivi le sue emozioni. Ti viene raccontato un problema, una difficoltà, che conosci molto bene, che in passato hai affrontato anche tu, e magari l’hai risolto brillantemente.
Qui nasce il casino. Perché è davvero molto complicato fermarsi, ascoltare, ed evitare di suggerire le soluzioni che tu avevi trovato e sperimentato, dimenticando due cose fondamentali:
Ciò che è stato risolutivo, positivo, per qualcuno, può non esserlo per un’altra persona, con un altro carattere. Può persino peggiorare le cose.
Affinché una soluzione funzioni, e funzioni a lungo termine, deve essere trovata dalla persona che ha il problema. Altrimenti è come copiare un compito in classe: si può evitare un brutto voto per una volta, ma il problema si ripresenterà.
Chi aiuta, chi prova empatia, supporta, incoraggia, ma non fornisce soluzioni preconfezionate.
Infine desidero demolire (sì, demolire, distruggere) la falsa convinzione circolante che l’empatia sia un dono di natura (o un difetto innato).
Questa idea è molto simile a quella che la capacità di comunicare efficacemente sia qualcosa che appartiene a qualcuno, e gli altri sono automaticamente fuori dal gioco.
L’empatia si impara, come si impara a comunicare, come si può sviluppare l’intelligenza emotiva in ogni sua componente, e come si può apprendere la grammatica o la matematica. Gli unici che hanno difficoltà gravi nello sviluppare l’empatia sono le persone prive di neuroni specchio, ma qui entriamo nell’ambito delle patologie.
E poi… che dire? Nonostante i difetti e i problemi correlabili all’empatia, se ciascuno sviluppasse la propria credo che il mondo sarebbe un posto migliore!